20 miliardi di euro. Questa è l’ammontare totale dell’assegno che che governo italiano si appresta a firmare, ancora una volta, per salvare il Monte dei Paschi, la terza più grande banca del paese, e forse molti altri istituti di credito in difficoltà a livello nazionale.
Una goccia nel mare considerando il debito pubblico dell’Italia, che si aggira intorno alla drammatica soglia dei 2.224 miliardi di euro. Eppure, il conto ammonterebbe a circa 334 euro per ogni uomo, donna e bambino del paese. A dieci anni dall’inizio della crisi finanziaria globale, i salvataggi delle banche finanziati attraverso soldi pubblici potrebbero ripresentarsi a oltranza. Com’è stato possibile?
Dall’inizio del 2016, una nuova legge europea – la direttiva BRRD (Bank Recovery and Resolution Directive – Normativa Europea sulla risoluzione delle crisi bancarie) – è in vigore per impedire ai governi, una volta per tutte, di salvare le grandi banche con i soldi dei contribuenti sostenendo che siano “troppo grandi per fallire”. L’obiettivo era chiaro: come qualsiasi altra società, le banche che falliscono devono essere liquidate. Le banche che sono troppo grandi per essere liquidate in un colpo solo devono essere stabilizzate per poi essere ristrutturate e/o cedute per una parte dei propri assets in uno spazio temporale piú ampio. Quindi non dovrebbero più essere i contribuenti a pagare il conto per gli errori dei banchieri. Se questo sembrava troppo bello per essere vero, probabilmente lo era.
“L’interesse politico nel proteggere una grande banca dall’essere posta sotto procedimento di risoluzione è evidente.”
La nuova legge include già alcune eccezioni, permettendo ai politici di proteggere una banca dalla liquidazione nel caso in cui questo possa provocare conseguenze su larga scala per l’economia. Tuttavia, per poter beneficiare di un salvataggio a spese dei contribuenti – o “ricapitalizzazione precauzionale” – tale banca deve essere fondamentalmente sana e in grado di dimostrare che tale sostegno pubblico sia di natura esclusivamente temporanea. Inoltre, è chiaro che i fondi pubblici non possono essere utilizzati per coprire perdite già verificatesi o che si prevede si verificheranno nel breve termine. Esperti in tutta Europa si domandano se il Monte dei Paschi, giunto ora al suo terzo salvataggio pubblico (dopo quelli del 2009 e del 2012) rispetti tali criteri. Al contrario, la Banca Centrale Europea – responsabile, insieme al Comitato di risoluzione unico (Single Resolution Board) di decidere per la ristrutturazione o liquidazione della banca – sembra ritenere Monte dei Paschi conforme ai criteri di cui sopra. Spetterà alla Commissione Europea giudicare se il piano di salvataggio del governo italiano rispetti o meno le norme sugli aiuti di Stato. Indipendentemente dall’approvazione o meno di tale piano – sembra che il nuovo quadro giuridico dell’UE per la gestione delle banche in crisi sia stato abilmente aggirato già alla sua prima grande prova.
L’interesse politico nel proteggere una grande banca dal processo di risoluzione è evidente. L’opzione di chiudere le banche non “sane” facendo ricadere le loro perdite sugli azionisti e creditori non sarà mai sostenuta da banchieri, investitori e politici. É una questione particolarmente delicata in paesi, come l’Italia, dove i cittadini, i risparmiatori e i pensionati posseggono una rilevante quota di obbligazioni bancarie. Non dovrebbe quindi sorprendere che, in tali circostanze, i politici considerino di ricorrere al “bail-out” come l’opzione più semplice e politicamente spendibile. Tuttavia, per i contribuenti ed il pubblico in generale, si tratta dell’opzione sbagliata. Come regola generale, tutti gli investitori dovrebbero essere trattati allo stesso modo: se una banca fallisce non dovrebbero essere i contribuenti a sobbarcarsi le perdite. Gli investitori privati ai quali sono stati venduti titoli rischiosi in maniera scorretta e/o non totalmente trasparente dovrebbero, ovviamente, essere risarciti. Il settore bancario, a cui è stato permesso di beneficare di questa pratica, dovrebbe essere obbligato a creare e contribuire ad un fondo dedicato alla copertura delle perdite. Ma il ginepraio in cui questi investitori si trovano non dovrebbe essere strumentalizzato da politici e banche allo scopo di mandare in “corto circuito” la struttura del processo di risoluzione e giustificare il ritorno al salvataggio delle banche con l’uso di risorse pubbliche.
“Mentre alle banche non sono autorizzate a fallire, siccuramenre lo è la regolamentazione post-crisi”
In modo altrettanto preoccupante, questo precedente potrebbe aprire la strada all’utilizzo dei salvataggi su scala più ampia, non limitata solo alle banche di maggiori dimensioni. Negli ultimi anni, le istituzioni Europee ed internazionali hanno creato un elaborato sistema per individuare le banche considerate “troppo grandi per fallire”. Le cosiddette banche “di importanza sistemica” sono soggette a procedure di controllo più rigorose, sia a livello nazionale sia Europeo, e devono rispettare requisiti patrimoniali più elevati rispetto alle loro “colleghe” non-sistemiche.
Ironicamente, tra le quattro banche in attesa di supporto finanziario dal governo, Monte dei Paschi è stata identificata dall’autorità nazionale di supervisione finanziaria come una tra le banche di importanza sistemica. Come successo nel 2015 con il salvataggio di quattro banche piú piccole, i proponenti del salvataggio pubblico sostengono come sia irrilevante che la banca in questione sia o meno sistemica poiche’ anche una piccola banca, se lasciata fallire, potrebbe innescare una crisi a livello nazionale. Ció equivale a dire che il quadro giuridico costruito negli ultimi anni proprio per consentire alle banche di fallire in modo ordinato e controllato non funziona e la pratica di identificare banche “di importanza sistemica” è altrettanto inutile. Mentre alle banche non sono autorizzate a fallire, sicuramenre lo è la regolamentazione post-crisi.
Probabilmente, alcuni dei problemi sorti nel trattare con le banche in difficoltà erano prevedibili. Ad esempio, la decisione circa il se e il quando porre una banca in risoluzione al momento deve essere presa congiuntamente da due istituzioni diverse, l’autorità di vigilanza e l’autorità di risoluzione. É un eufemismo dire che sia un processo non progettato per produrre decisioni rapide e senza intoppi. È noto che le autorità di supervisione, in particolare, tendono ad essere riluttanti nel rinunciare alle proprie cariche. Il fatto che il criterio per innescare la risoluzione – se la banca è “fallita o probabilmente fallita” – non sia legato a soglie quantitative oggettive bensí in gran parte soggetta al giudizio discrezionale dei regolatori, certo non aiuta. Se i legislatori europei sono davvero seri circa la chiusura delle banche in fallimento dovrebbero dimostrare la loro determinazione velocizzando e semplificando questo processo.
Infine, il conto totale di 20 miliardi di euro, se pienamente implementato, aumenterebbe di un punto percentuale il già enorme debito pubblico nazionale, che ammonta a 133% del PIL. Un livello di debito che sembra già impegnativo, in un periodo di tassi di interesse ultra-bassi e di un aggressivo “alleggerimento quantitativo” (quantitative easing o QE) operato dalla Banca Centrale Europea, potrebbe diventare difficile da gestire all’innalzarsi dei tassi. Inoltre, gran parte di questo “gruzzulo” è detenuto dal settore bancario fragile del paese. Quello che sembrava una buona idea in quel momento – le attuali leggi Europee non obbligano le banche a garantire capitale a fronte della quota posseduta di titoli di Stato, mentre le autorizza a maturarne gli interessi – puó potenzialmente diventare una micidiale arma a doppio taglio se i mercati decidessero di abbassare il rating di credito assegnato all’Italia. Chiaramente, il legame tra governo e banche è ben lungi dall’essere spezzato. Ed i contribuenti hanno ancora tutto da perdere.
Christian Stiefmueller